Un mediocre

“Poiché i migliori hanno rifiutato, dobbiamo accontentarci di un mediocre”.

Ricordo di averlo letto nelle note di un disco: era il verbale con cui si decideva di assumere Johann Sebastian Bach per non so più quale incarico.

Lui dovette esserne consapevole. So anche dei grattacapi per la scarsa qualità dell’organico a Lipsia, delle richieste limitanti a Weimar. E immagino che venisse informato dei successi dei suoi contemporanei, per esempio Haendel. E riscontrava la tiepida accoglienza dei suoi lavori.

Poi le preoccupazioni familiari, perché a crescere figli non mancano, e l’economia domestica precaria, infine una malattia.

E lui componeva. Componeva e studiava. Non è che quando incontrò Weiss, acclamato liutista, si sia scoraggiato; ne ebbe lo stimolo a comporre qualcosa anche per il liuto.

E quando riuscì ad avvicinare il Margravio del Brandenburgo, gli mandò una bella copia dei suoi concerti. Sembra che quei capolavori non siano stati ritenuti degni di una risposta. Fra lui e sua moglie, quante mai copie stese, corrette, rifatte!

Ma lui continuava a comporre, trascrivere, elaborare.

Certo, riconoscevano che suonava bene, insegnava ma bisognava essere già bravi. Sapeva pure collaudare gli organi nuovi.

Aveva la stima di intellettuali e musicisti. Ciò non lo rese mai ricco.

Ecco, penso a lui e considero che le cose vanno fatte seriamente. Magari nemmeno un’attività artistica: siamo prima del Romanticismo e lui era uno stipendiato fra tanti, sparsi fra corti, chiese, istituti.

Quindi vale per ogni lavoro da far bene, ma ancora di più se si vuol fare un che di artistico.

L’ultima cosa che fece fu dettare, allettato e cieco, le sue ultime note musicali.

Ora la smetto di cazzeggiare, butto a mare il pessimismo e mi metto a fare.

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Macaco sapiens

In un documentario su Focus, si vede una popolazione di macachi rhesus, che uno studioso fece importare dall’India a un’isola davanti a Porto Rico.
La popolazione è cresciuta, si è adattata fino a che, tempo fa, un ciclone ha devastato l’isola, distruggendo quasi tutta la vegetazione.
Ciò ha prodotto disagi ai macachi che cercavano ombra, un tempo abbondante e oggi rara.
Una studiosa segue le scimmie da tempo e ha rilevato un cambiamento nelle loro abitudini sociali. La loro è una società gerarchica, con precise delimitazioni. I dominanti si accomodavano a piacere nei luoghi più protetti e gli altri dovevano adattarsi. Questo fino a quando non c’è stata quella riduzione, repentina e notevole, dell’ombra disponibile.

Ecco cosa NON è successo.
a) I dominanti hanno continuato a prendersi gli ormai pochi spazi disponibili, la popolazione sofferente è diminuita.
b) Alcuni dominati si sono ribellati, uccidendo e sostituendo i dominatori, a loro volta riservandosi i posti migliori.

Ecco cosa invece è successo.
I dominanti e i dominati hanno cambiato i metodi di precedenza, garantendo ombra per tutti.

Ciò dimostra, sicuramente, che i macachi rhesus di Porto Rico sono più intelligenti degli esseri umani.

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Prese in giro

Due giorni fa, alla televisione, la notizia che in centinaia di strutture sanitarie i NAS hanno trovato sporcizia, scarafaggi, cibi scaduti e compagnia bella.

Notizia da far arrabbiare, certo. Ma la notizia che mi fa imbestialire è che due responsabili sono stati multati per un totale, in Lombardia, di seimila euro. Non la multa: la cifra!

Qui il Tgr Lombardia con la notizia, dal minuto 6.00.

Mi sento preso in giro. Dai due scellerati, dai NAS, dai Tg.

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La bellezza è adesione, o almeno avvicinamento, di qualcosa a ciò che deve essere.

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Cure in abbondanza

C’è gente che paga per farsi massaggiare con oli profumati da due belle signore. Io ho pagato con un’ulcera e le tasse al Servizio Sanitario Nazionale.

Fin qui le scemenze. Quando parlo di tasse, non intendo le mie ma le tue, perché se anche avessi lavorato il doppio dei quarantatré anni effettivi non avrei mai potuto pagarmi tutte le cure a cui sono stato sottoposto negli anni.
Partiamo dall’ulcera. Dopo il ricovero mi hanno fatto una gastroscopia e esami del sangue, poi giù con le flebo, due alla volta: tre sacche di sangue, quattro flaconi di ferro e altrettanti di vitamine, gastroprotettore, sali, glucosio e non so che altro, questo per sei giorni. Altri esami del sangue e infine dimissioni.
Nel frattempo diverse persone si sono avvicendate per l’assistenza, l’igiene, anche per radermi.
Acquisire i vari prodotti è una questione commerciale, ma almeno per il sangue possiamo pensare anche ai donatori e agli altri volontari, come AVIS.
Insomma, un’enorme macchina sociale, oltreché commerciale e industriale. Pare che negli Stati Uniti avrei dovuto pagare tutto.

E sarà la giornata uggiosa, non quella metereologica ma quella interna, e sommo tutto ciò a una smisurata quantità di beni e risorse e sforzi che tante persone, molte delle quali non mi hanno mai conosciuto, hanno devoluto per il sottoscritto e molti altri. Penso allo sguardo che anch’io rivolgo ai bambini, come probabilmente ne furono rivolti a me in ospedali e istituti, nella speranza di darmi un futuro migliore.

E io sento il peso di tutte quelle cure, di tutte le fatiche, delle speranze non so se esplicite o generiche: cosa mai avranno sperato per me, tutti coloro che per me si alzavano la mattina? A partire dai miei genitori.

Si fanno spesso bilanci e scopro il mio, ancora una volta, deficitario. Dovrei come minimo salvare alcune vite. Ma pensarci ora serve a poco, avrei potuto forse rimediare se in tutto quel ricevere avessi avuto in mente di rendermi utile in qualche modo e forse, chissà, studiando più volentieri e interessandomi al prossimo, diventare parte attiva del meraviglioso ingranaggio della solidarietà umana.

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Terremoto

Ci può essere risposta?

Non la risposta ovvia dei soccorsi. Questi tendono a ridurre il danno ma non possono annullare il danno già avuto.

Parlo del viso che ho visto ieri sera, di una povera sfollata precariamente protetta dal freddo e dalla pioggia, alla soglia del pianto. Probabilmente il disagio della sistemazione le risuonava come materiale perduranza delle perdite che stava ricapitolando: la casa, gli oggetti familiari, i familiari stessi con folla di vicini e conoscenti. La paura non ancora passata, forse il dolore fisico.

Che darle? Quando, e se, l’emergenza sarà passata, rimarrà il fatto di essere stata colpita. Si tende ad attribuire a meriti personali i beni e i successi; a propria colpa sventure e sciagure, anche quando altri le hanno procurate.

Intanto, nel mondo, c’è chi racconta barzellette, chi si preoccupa di scegliere un vestito, chi rimprovera un comportamento inadeguato, chi teme l’imbarazzo. Ci sono eserciti di persone impegnate a distruggere, rubare, smontare; altri raccolgono aiuti, distribuiscono pasti, ascoltano. Si fanno spettacoli, si scrive, si preparano esami, si pratica un commercio.

Il clamore delle attività umane arriva forse a quella donna? Tutto irrilevante, incongruo con il suo “qui e ora” fatto di sconforto.

Anch’io mi vergogno. Mentre racconto una storia, leggo un libro, ascolto musica, parlo di auto o di impianti da montare, di politica o di vacanze. Che le rispondo? Scuoto il capo, allargo le braccia: troppo lo sconcerto. È naturale il desiderio di rimediare a qualche male, ora sapendone tanti; di restare più attenti al bisogno.

Non può essere soltanto l’efficienza a far fronte, né la doverosa partecipazione agli aiuti. Serve riconoscere bisogni immateriali affinché un viso trovi altra espressione. Patirne insieme l’enormità, in fratellanza perplessa. Potrà mai bastare?

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Adamo

Bastò una constatazione: di scoperta e di perdita.
La raccontò lui o, perlomeno, fu la sua versione a essere tramandata.
Uno sguardo levato a riconoscere l’esistenza intera al di là dei confini biologici, unicamente interessati all’ordinaria sussistenza. La capacità di dar nomi alle cose, nomi che poi non poteva riportare a nessuno.
Incontenibile entusiasmo: simile alla furia di artisti e ricercatori, perpetuamente infastiditi dall’altrui mediocrità, ma quanto maggiore la mediocrità di scimmie!
E sofferenza, certo. Sentire che c’è un regalo e non sapere qual sia, che c’è una facoltà, ma non saper di cosa.

Costantemente pure soffrire la perdita del proprio nido, lontananza dagli affetti naturali. Tanto maggiore l’impressione di ricevere da fuori, da sopra, da oltre, un sentire in apparenza non fisico, il suo corpo apparendo identico agli altri.
Quante volte avrà patito una percezione per cui non aveva parole, come in fondo anche oggi mancano. Quante volte avrà creduto d’essere stato toccato a suo danno per un capriccio di chissà chi, neanche degnatosi di dargli spiegazione. Da qui il duplice senso del sacro, di cosa da venerare o da sterminare.

Quale non dev’essere stata la sorpresa, a trovare Eva.
“Ecco infine qualcosa a me simile!”. Come dicevo, ci è riportata la sola reazione di lui: finalmente il brutto anatroccolo si trovava confermato: “Ma allora, non sono poi così sbagliato!”. In lei trovava la sua giustificazione, sua sorella e portatrice della stessa anomalia, finalmente poterne fare discorso con parole nuove a cui la comune esperienza dava significato.
Nell’eccitazione si saranno esplorate ipotesi premature, ci si sarà avventurati incautamente, come i bimbi quando imparano a correre? Nessuna mamma a baciare un ginocchio sbucciato.
Poveri giovani, troppo entusiasti e malaccorti, quanto poco dovette passare perché i loro giudizi, prima diffusi all’intera creazione, si rivolgessero a loro? Novità di pensare sé stessi, come uno specchio nella loro coscienza. Ora gli specchi erano due: quello interiore e l’altro di fronte, che rimandava però un riflesso sempre leggermente diverso, con differenze che si amplificavano a ogni rimando.

È così che la loro scoperta, dopo la conquista, si mutò in perdita.
Tanto che non è così facile capire chi abbia proposto la scelta devastante, in apparenza la semplice espansione di quel nominare, cioè definire, in cui si erano dilettati.
Si può definire qualcosa solo in relazione ad altro. Fu un attimo e partì l’enumerazione dei difetti: questo ha quattro zampe e quello solo due; questo vola e quello no. Lo specchio, ora maledetto, riportò su di loro le mancanze di tutto il creato ed essi si sentirono insopportabilmente mancanti. Poi la relazione, sempre ambigua, fece il resto e cominciarono a indicarsi le carenze rispettive.
Erano nudi di fronte a un mondo che nel darsi aveva assunto, ai loro occhi, un tono di rimprovero ed essi si vergognarono: che i loro corpi non fossero all’altezza delle loro idee, di aspettative sempre un dito al di sopra dei fatti. È cosa replicata nelle generazioni successive: si usa un sasso, ma lo si poteva scheggiare meglio; si fa preda, ma altra è fuggita; si semina, ma scarso il raccolto; si genera, ma quanta fatica!
Una generazione dopo l’altra, la delusione di Adamo avrebbe acquisito sempre maggiori dettagli.

Intanto Caino assistette a litigi che i suoi cugini, stanziati poco distante, non conoscevano. Crebbe preparandosi in conformità.

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L’uomo in quel letto

Qui la canzone: The Man In The Bed di Dave Alvin.

Dedicata al mio babbo. Prima che arrivi a qualche altro Paradiso, spero che abbia potuto correre libero.

L’uomo nel letto non sono io
Ora sono scivolato fuori dalla porta e sto correndo libero
Giovane e selvaggio come sarò sempre
Ma l’uomo nel letto non sono io

E queste mani tremanti, non sono mie
Ora le mie mani sono sempre forti e ferme
Possono far oscillare una mazza o calmare un bambino che piange
Queste mani tremanti, non sono mie

Ora l’infermiera laggiù non lo sa
Che non sono un vecchietto indifeso
Avrei potuto spezzarle il cuore non molto tempo fa
Ora l’infermiera laggiù non lo sa

Che l’uomo nel letto non sono io
Perché sono scivolato fuori dalla porta e sto correndo libero
Giovane e selvaggio come sarò sempre
L’uomo nel letto non sono io

Sono l’uomo che sono sempre stato
Sono il ragazzo che ha cavalcato i binari durante la Grande Depressione
Ho combattuto nella Grande Guerra e ho marciato per l’Unione
Sono l’uomo che sono sempre stato

Quindi non credere a quello che dicono i dottori
Stanno solo inventando cose per essere pagati
Sì, e comunque non è di me che stanno parlando
Quindi non credere a quello che dicono i dottori

Perché l’uomo nel letto non sono io
Beh, sono scivolato fuori dalla porta e sono finalmente libero
Giovane e selvaggio come sarò sempre
No, l’uomo nel letto non sono io
No, l’uomo nel letto non sono io
No, l’uomo nel letto non sono io

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Dimissioni di genere

Ci sono state reazioni all’annuncio del ritiro della Prima Ministra neozelandese. Se si trattasse del fatto nudo e crudo, mi limiterei a prendere atto, ma le affermazioni a contorno, sue e altrui, mi sembrano richiedere qualche ragionamento.
“Sono umana”, avrebbe detto. E che significa? Forse che tutti i “leader-a-prescindere”, le “guide-illuminate”, i tanti “rieccolo” della politica, i “capitani” degli affari mondiali, non sono umani? Bene: qualche volta, a vedere come conducono il mondo, un sospetto viene… Però non è un argomento, al massimo può essere un sensato commento: non stupiamoci, gli umani non sono immortali, invincibili, onnipotenti. Commento utile a chi manifestasse stupore, implicando l’abitudine a farsi guidare dagli immarcescibili di cui sopra. Certo, se fosse accettata la nozione, si userebbe molta meno cocaina; tanti superumani verrebbero ridimensionati, proprio per l’improbabile loro resistenza.
Sì, cari umani: c’è stanchezza. Non ci si stupisca.

Ho trovato commenti comprensivi sul fatto che una donna impegnata in politica si trovi a dovere rinunciare al tempo da trascorrere in famiglia, alle esigenze dei figli.
Tempo fa qualcuno commentava che Samantha Cristoforetti se ne partisse in missione lasciando i figli; fu ovvio notare come discorsi simili non fossero fatti ai colleghi uomini.
Però è vero: la cura parentale, abitualmente, ricade più sulle donne. Da una parte, si dice che ciò andrebbe superato, in modo da favorire un’autentica parità dei sessi in ambito sociale, e se ne fa carico ai latitanti maschietti; altre volte si enfatizza la circostanza come espressione di superiori doti femminili di cura ed empatia, ancora evidenziando il limite dei maschietti. Ma io tanto l’ho capito, che la colpa è sempre di lui…
Tutta questa comprensione sul fatto che Ardern abbia “tanto da fare” mi sembra pericoloso, se abbiamo l’intento di superare discorsi sugli “angeli del focolare” e sul “posto delle donne”.
È vero che non c’è solo la situazione, ma anche la mentalità, per cui è difficile liberarsi dall’idea che una donna dovrebbe “essere in famiglia”, qualunque altra cosa si stia facendo; si immagina facilmente come questo rovello possa essere pesante, a lungo andare.

Qualcuno diceva: “Per lei il potere è cura”. Certo, a essere coinvolti anche emotivamente ci si può stancare di più, ma non vorrei far passare l’idea che cura e debolezza siano associate. Anzi, sarebbe ora che qualche cervellone mettesse in campo le solide argomentazioni necessarie affinché il governo diventi, come democrazia vorrebbe, un servizio piuttosto che un dominio.

Altri segnalano quanto sia difficile, particolarmente in certi paesi, non dannarsi l’anima per una carriera, di fronte al terribile “con tutto quello che ti abbiamo fatto studiare!” Certo, perché un uomo studia e va bene così, mentre una donna deve dimostrare di meritarselo…
Si aggiunga che i toni sessisti si intrufolano, inavvertiti o peggio scontati, in tanti commenti sulle prestazioni lavorative, politiche, artistiche. Una donna deve continuamente scremare, scegliere su cosa ribattere, e inghiottire il resto anche se il boccone è grosso. È difficile che a un politico maschio si rimproveri di essere “brutto” e perciò la sua opinione non valga. Se una donna prende decisioni che altre donne criticano, ecco che l’accusa sessista sorge, indipendentemente dalla plausibilità. C’è chi minaccia e insulta i figli di una donna, difficilmente di un uomo. È vero, per una donna ci sono difficoltà specifiche. So che ci sono difficoltà specifiche anche per un uomo ma è un discorso diverso e non voglio confondere le cose.
How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
And how many roads must a woman walk down
Before they say she’s OK?

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David Crosby

Scopro ora che è morto David Crosby. Il mio preferito dei quattro, ai tempi, perché era il più “fuori”. E no, non passerò la giornata a sentire i pezzi suoi.

Che tutto se ne vada, l’ho ben visto quando il mio babbo accolse la notizia della morte di Frank Sinatra. Che ciò sia una schifezza, ne sono convinto, ma soprattutto mi pesa la carenza di rimpiazzi.

Che sperare, del resto? Che esca gente a fare quella stessa musica, a farmi sognare quei medesimi sogni? Trasformare il tempo in gratificante ripetizione? Ascolta Still Life dei Van Der Graf Generator e sappimi dire.

Non è meno spaventoso dell’immagine di rimanere congelato in un tempo che non è più. È un po’ l’idea che ho del mio posto nell’eternità: ecco, è tutto qui dal giorno x al giorno y e altro non è dato. Noioso, a lungo andare, una bollicina nell’effervescenza dell’esserci. Troppo poco per volerne fare epica. Insufficiente alla volontà di permanere.

E che ascoltare, dunque? Anche Beethoven e Bach se ne sono andati ma li ascolto senza il gorgo di immedesimazione personale che so mi travolgerà, la prima o seconda o ennesima volta in cui sentirò “If I Could Only Remember My Name”. E so che quella volta, come molte altre, maledirò il destino cinico e baro che mi impedisce di ricordare il mio nome, di trovarlo scritto nella mia vita, in opere che vorrei incise nel piombo mentre vedo il piombo stesso liquefarsi.

Offro dunque il mio ribollire, quieto e tutto sommato innocuo, alla complessiva qualità dell’elisir divino. Spero che ‘innocuo’ non sia sinonimo di ‘dannoso’, anche solo per omissione; rimango nella perplessità a lasciarmi vivere, sperando almeno che la mia supplica contribuisca nel ricavare a The Croz un posto confortevole nel paradiso dei matti e dei suonatori.

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